Nel linguaggio comune per esprimere la valutazione finale di un alunno si utilizzano i termini “promosso” e “bocciato” che sanno tanto di etichetta irrimediabile, mentre a scuola, fino a qualche anno fa, si preferiva “respinto”, come se sentirsi “non accettato” fosse più soft. Oggi, invece si dice “ammesso e non ammesso alla classe successiva” che ridimensiona un po’ il giudizio espresso estendendolo solo all’anno scolastico in corso più che a un risultato definitivo. Ma una “non ammissione” rimane ugualmente grave, è un dramma in famiglia e viene vissuto come una vergogna davanti ai parenti, agli amici, ai vicini di casa….A volte i genitori reagiscono come se vivessero quella sconfitta in prima persona, come se, dopo aver studiato tanto fossero loro i bocciati, come se ci fossero ancora dei conti in sospeso con le loro esperienze scolastiche.
Una delle prime reazioni è la rabbia nei confronti degli insegnanti che sono incapaci, odiano il figlio e l’hanno preso di mira…e magari è tutta colpa di un insegnante come se la decisione fosse personale di un unico docente e non collegiale del consiglio di classe.
Ma al di là del risultato più o meno ingiusto, delle discussioni, delle prediche, delle punizioni e forse di qualche ceffone, che cosa passa nella mente di un bambino o di un ragazzo che dovrà ripetere l’anno ?
“Non sono bravo,… non sono capace,… sono negato,.. non si riesco,.. non ci riuscirò mai,.. certe cose non mi entrano in testa,.. non c’è niente da fare”. Che tipo di autostima si rafforzerà, quali sensi di colpa si annideranno in lui, quali compensazioni metterà in atto e a quali risorse ricorrerà per superare le nuove difficoltà che si presenteranno?
Proviamo a trasformare anche la bocciatura in un momento di crescita, in un’occasione per migliorare anche come genitori. Iniziamo con una riflessione sulle reali difficoltà del bambino, su come sta vivendo questo momento, su come l’abbiamo sostenuto e incoraggiato o ci siamo semplicemente sostituiti a lui nell’aiutarlo a fare i compiti, su quanta sicurezza gli abbiamo trasmesso o a quali pesanti aspettative l’abbiamo sottoposto.
Cerchiamo di conoscere meglio le difficoltà del bambino o del ragazzo anche parlandone con gli insegnanti che lo conoscono in un altro contesto e, dialogando con loro, comprendere gli obiettivi che si propongono e il tipo di lavoro che vorrebbero portare avanti. E, se necessario, parliamo anche con uno psicologo o un altro professionista competente in quel tipo di problematica.
E, soprattutto, ascoltiamo il bambino o il ragazzo senza suggerire subito un consiglio, osserviamolo e accettiamolo così com’è, carichiamolo con motivazioni valide, ma non esterne come per esempio: per far contenti i genitori, per ottenere un premio-ricompensa, per evitare una punizione, perché è meglio studiare che lavorare, perché prima finisci e meglio è, per accontentarsi almeno della sufficienza, perché un pezzo di carta può sempre servire, ecc.
Proviamo a trasmettergli la passione per la conoscenza e la creatività, il piacere e l’interesse per lo studio, il gusto di scoprire nuove competenze e abilità finora sconosciute ma possedute, quell’energia vitale che porta a scegliere di studiare, con libertà e consapevolezza. Come?
Sperimentando per primi l’entusiasmo e la passione che vogliamo comunicare.